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Fenomenologia dei concorsi. Una comparazione tra l’Italia e gli altri sistemi di reclutamento

di Giambattista Scirè

su rubrica/blog di "MicroMega", 8 ottobre 2020


"Ho letto di recente un articolo di Piero Bevilacqua che parla di regressione dell’Università italiana e di un mondo accademico sempre più precario e ripiegato su se stesso. Lo studioso di storia sostiene, a ragione, che il fatto che a governare l’università, dal ministero, sia un ex rettore (Manfredi, peraltro anche ex presidente della Crui, la conferenza dei rettori italiani), cioè un uomo di apparato, che viene proprio dal sottosuolo stesso di quel mondo, non sembra poter cambiare le cose. Anzi rischia di aggravarle, aggiungerei. Ma - ed è qui che l’analisi di Bevilacqua rimane monca e illusoria - si rivolge alla classe politica nella speranza di una qualche riforma. Eppure proprio lui dovrebbe avere memoria del passato (lontano e recente) delle politiche universitarie. Il punto, caro Bevilacqua, è che non basta certo un governo che abolisca l’Anvur, o il 3+2, per risolvere gli annosi problemi dell’università. Bisogna raccontarcela tutta, fino in fondo.

L’Università italiana è malata da tempo, prigioniera di un gruppo di potere accademico che la ricatta e la gestisce come fosse una proprietà privata, sotto gli occhi di una classe politica distaccata, incompetente e ammiccante e di una classe docente omertosa (in maggioranza), complice in altri casi.

Essa è diventata sempre meno un modello e sempre più un luogo ingiusto, che favorisce i privilegiati (predestinati) e non incoraggia la competizione. Anzi, scoraggia i più meritevoli e li spinge a cambiare paese o lavoro. In tal senso, il paragone con gli altri paesi europei è assolutamente impietoso. Si tratta, come sa bene Bevilacqua, di una istituzione che non potrà mai funzionare senza prevedere adeguati meccanismi di incentivi alla qualità della produttività scientifica (nessun docente viene premiato per i risultati ottenuti, se ha successo nella ricerca, nelle pubblicazioni e nell’insegnamento, perché tutto si gioca su altri fattori: burocrazia, anzianità, fedeltà, etc.) e senza meccanismi severi di sanzioni di fronte alle “malpratiche” accademiche e agli abusi (nessuno dei docenti paga realmente per i propri fallimenti scientifici o per aver truccato e abusato ai concorsi). La classe politica ha sempre evitato di mettere mano a delle serie riforme, semplici e radicali, come quelle proposte dall’associazione “Trasparenza e Merito” - ci siamo rivolti senza esito, prima alla ministra Fedeli (PD), poi al ministro Bussetti (Lega), infine al ministro Fioramonti (M5S). Ne riporto qualcuna, a livello esemplificativo: modifica radicale del sistema di reclutamento in ingresso, senza concorsi locali ma solo nazionali, con sorteggi delle commissioni, griglie e paletti precisi sui criteri di valutazione, multe e sanzioni per chi abusa; con il superamento delle attuali anacronistiche differenti figure precarie da sostituire con una sola forma di pre-ruolo da ricercatore, e con la definizione di un unico ruolo della docenza universitaria, che abbia un solo stato giuridico nazionale, diviso in diverse fasce di retribuzione.

Risulta un po’ ostico, per qualcuno perfino indelicato, parlare di clientelismo dell’Accademia italiana, proprio perché i docenti universitari dovrebbero avere, in teoria, una funzione istruttiva enorme. Trattandosi, dunque, di un mondo che si ammanta del velo apparente della scienza, della cultura - con tutto il prestigio sociale che ne discende - diventa rischioso metterne in discussione i metodi di selezione, si badi bene, non la funzione in sé. Eppure, in qualsiasi ambito lavorativo, l’uso della funzione di pubblico ufficiale per ottenere vantaggi personali è una tentazione permanente. Nelle università come in qualsiasi altra istituzione. Ma le conseguenze di questi comportamenti che - vorrei ricordarlo ai più superficiali o sbadati - trattasi di reati, sono molto più gravi nell’Alta istruzione. Non si tratta, come si è spiegato più volte, di una questione di etica individuale, ma di etica pubblica. In altri termini, è il sistema per come è strutturato che può indurre a malpratiche e negligenze del comportamento a livello collettivo. In pratica, anche in un ambiente fondamentalmente sano a livello etico, le nicchie di corruzione che si annidano nel sistema attraggono irregolarità che si rafforzano a vicenda. Nelle università, in particolare, le alleanze di potere accademico aumentano le zone di opacità e non trasparenza in un luogo dove le regole sono ritagliate a seconda delle necessità del potente di turno (vedi le manipolazioni dei regolamenti degli atenei).

La valutazione della correttezza accademica diventa, dunque, dentro gli atenei, molto soggettiva, tanto più che la priorità è di solito data alla cosiddetta “libertà accademica individuale”, piuttosto che ai diritti istituzionali, con clamorose eccezioni ottenute rispetto alle regole generali. I docenti universitari non sono nemmeno tenuti a dar conto delle loro azioni in ambito di lezioni, valutazioni e concorsi. Inoltre, molti membri dell’università considerano le irregolarità come una sorta di autodifesa della specie, o meglio si potrebbe definire “tribù”, in pericolo di estinzione, preservata solo da privilegi giustificati proprio dalla specificità della loro identità. Questo accade proprio per la peculiarità che l’istituzione accademica gode rispetto ad altre istituzioni e per l’assetto del sistema di reclutamento e di meccanismi che si sono sedimentati nel corso dei decenni. In realtà si tratta non solo di un problema economico (danno erariale dovuto a concorsi truccati), di una questione culturale (cioè di abbassamento della qualità del servizio, ricerca e insegnamento), ma anche di un aspetto sociologico e, anche, psicologico: sorge un grande problema collettivo quando queste persone, sostanzialmente già privilegiate rispetto a tanti comuni cittadini, estendono questi privilegi a tutti gli aspetti della loro esistenza, mescolando indebitamente funzioni private e pubbliche, dimenticando i relativi “doveri”, traendo così un vantaggio ingiusto dal loro status di “specie protetta”; così facendo finendo con l’evitare le regole di base della reciprocità e del confronto culturale, con l’indebolire le procedure democratiche (affermando che “la scienza non può essere democratica”) e con il superare tutti i tipi di confini, anche quelli della stessa legalità.

Diventa oggettivamente difficile, per non dire imbarazzante, prendere le difese del mondo accademico di fronte ai contenuti di alcune intercettazioni tra docenti, rinvenute nell’ambito di alcune inchieste delle procure, svolte nel 2017, 2018 e 2019, a proposito di ambiti e settori scientifici diversi, da “Chiamata alle armi” sull’abilitazione scientifica nazionale a Diritto Tributario, a “Universitopoli” con i concorsi locali di Medicina, fino alla più recente “Università bandita” dell’ateneo di Catania, da Economia a Lettere, da Scienze politiche fino a Giurisprudenza. Si tratta di frasi pubblicate in vari articoli di giornale ma che è bene riunire qui per dare meglio l’idea di cosa stiamo parlando.

In una cena tra docenti di Diritto Tributario, avvenuta in un ristorante di Roma, un professore molto noto  aveva parlato ai colleghi della necessità “di trovare persone di buona volontà”, per “gestire la materia dei futuri concorsi”. Il docente definiva questo gruppo, seppur scherzosamente, la nuova cupola”, nell’intento di fare in modo che le future idoneità all’abilitazione scientifica nazionale nell’università italiana fossero gestite, non di volta in volta dai singoli commissari, ma da un “gruppo di garanzia”. La regola era quella del “do ut des”, ovvero dello scambio di favori tra commissari, una sorta di patto, di accordo per scambiarsi reciprocamente i voti e favorire i candidati “sponsorizzati” da ciascuno. Questo avveniva con la concessione dell’idoneità, in modo tale da poter “piazzare” ogni singolo candidato idoneo poi al concorso locale che veniva chiamato dal singolo ateneo, ma era tutto già deciso e predeterminato. “Non è che non sei idoneo... non rientri nel patto... non sei nella lista”, queste solo alcune delle frasi tipiche.

Nel frattempo, in un noto ospedale di Firenze, durante i discorsi emersi nelle telefonate tra alcuni docenti e medici, il tentativo di violazione delle norme di legge appariva altrettanto evidente. In poche parole i docenti spiegavano pacatamente che si tratta solo di far capire al candidato predestinato che “tutti dobbiamo essere parte di un progetto…che senza di te non c’è”, e ancora “qui c’è stata una esposizione di persone”. La conferma che si tratti di un “gioco ad incastri”, per cui se vince in un posto tizio, allora si libera un altro posto per caio, in un ateneo piuttosto che in un altro, era data da vari passaggi, ad esempio: “Nel senso che tutto è legato a che cosa succederà al concorso a Firenze…”. E poi ancora: “Sono importanti i titoli, però poi ci sono altre cose da considerare, tipo il carattere, la personalità... sicché un concorso non si esaurisce nel valutare diciamo”,se poi le cose non vanno come dovrebbero andare bisogna chiedere conto a chi ha preso degli impegni, no?”. E al candidato escluso: “Non ti chiameranno, anche se tu vincessi il concorso...”.

Nelle telefonate tra i docenti dell’ateneo di Catania, rettori, ex rettori e direttori di dipartimento, si andava addirittura oltre: Ora io me li devo incontrare tutti...mica gli posso parlare al telefono?... non è un’attività illegale ma insomma...allora sai che fai...gli fai una telefonata e gli preannunci un bigliettino...”. E ancora: “Ne ho uno al giorno che viene per un problema...di parentela, o di...perché poi alla fine qua siamo tutti parenti...sì, sì sono tanti parenti...alla fine l’università nasce sua una base cittadina...abbastanza ristretta...una specie di élite culturale della città...perché fino adesso sono sempre quelle le famiglie...”, “Ora mi faccio dare l’elenco tutto...e vediamo chi sono questi stronzi che dobbiamo schiacciare”, “Lui aveva detto di stare tranquilli...che non l’avrebbe fatto, invece l’ha fatto...il cretino...vabbè lo distruggeremo...è un uomo finito...”.

Confortati dalle considerazioni dei giudici, vale la pena di osservare, per volere essere soft, che si tratta di metodi e prassi che scardinano alla radice il sistema del pubblico concorso democratico (Art. 97 della Costituzione) e il principio della astratta determinazione dei criteri selettivi, affidati alla imparzialità dei commissari. Pertanto, il quadro che emerge dalle intercettazioni dimostra che le finalità della gran parte dei concorsi negli atenei italiani siano sostanzialmente illegali e ben diverse da quelle che dovrebbero orientare la scelta del più razionale e utile impiego delle risorse pubbliche in vista della individuazione dei migliori studiosi.

Stando così le cose, il sistema di reclutamento universitario italiano non appare neanche lontanamente paragonabile ad altri più avanzati, e non è nemmeno tutto questo modello di qualità come qualcuno vorrebbe continuare a far credere. Se, infatti, proviamo a metterlo a confronto con quello di altri paesi europei, in termini di trasparenza delle regole, valorizzazione del merito, capacità di stimolare la produttività e la qualità della ricerca in termini di incentivi, ne usciamo letteralmente con le ossa rotte.

In Finlandia, ad esempio, esistono finanziamenti aggiuntivi e premiali del ministero alle singole università che incentivano i requisiti di merito; per essere chiamati come professore (c’è il ruolo unico) sono previsti dei revisori esterni agli atenei, è necessario documentare una ricerca altamente qualificata e di eccellenza, misurata dalle pubblicazioni, e le chiamate per i candidati vengono effettuate pubblicamente, spesso negli annunci sui giornali.

In Germania, una caratteristica importante e peculiare del sistema di reclutamento è che i ricercatori abilitati non possano ottenere una cattedra nella propria università. Questo è specificato nell’Higher Education Act e si chiama: divieto di promozione interna. L’esatto contrario che da noi. Inoltre, la procedura per la nomina dei professori è la stessa in tutte le università tedesche: i membri della commissione devono essere rappresentanti di altre facoltà, esperti che non hanno alcun rapporto personale con i candidati, mentre una particolare attenzione è riservata alla “competenza specifica per materia”. Da noi non si contano più, da quanti sono, i casi di valutazioni “eccentriche” o “creative” da parte delle commissioni di concorso in ambito di congruità al settore messo a bando.

In Inghilterra, infine, sia la struttura accademica sia l’accesso al mercato del lavoro dopo l’università sono decisamente competitivi. Gli incentivi per selezionare i migliori candidati sono forti: l’autonomia dell’università si unisce alla valutazione del reale rendimento accademico, in particolare delle pubblicazioni (attraverso il Research Excellence Framework). È utile notare che la mobilità tra le istituzioni universitarie in Inghilterra è molto elevata e quindi la promozione nella carriera è ottenuta, soprattutto, quando si fa domanda per una posizione più alta in un’altra istituzione. Più in generale, il sistema accademico inglese è molto dinamico: se una posizione viene liberata, spesso a causa della grande mobilità interuniversitaria, si apre quasi immediatamente una nuova posizione per coprire la posizione lasciata libera.

A questo proposito, comparando i sistemi appena menzionati, è interessante riportare la diversa percezione dei docenti universitari di questi paesi, attraverso i risultati di una ricerca dal titolo “Reclutamento e carriera accademica in Europa”, pubblicata sulla rivista “Journal of Sociology”, intervistando in modo anonimo un elevato numero di professori strutturati, quindi rappresentativi dei singoli sistemi di riferimento (il campione di accademici a cui è stato mandato il questionario mirato: Finlandia 1452 unità; Germania 1265; Italia 1701; Regno Unito 1565). Ebbene, a proposito del ruolo di maggiore influenza e del peso nelle decisioni relative al reclutamento di docenti e agli avanzamenti di carriera, da parte degli stessi protagonisti è confermata l’idea che la questione sia un affare esclusivamente interno, in cui hanno un ruolo preponderante i soggetti accademici più potenti (rettore, direttore di dipartimento) e il potere individuale (di ricatto?) dei singoli docenti, nel senso di una fortissima verticalizzazione, piuttosto che un ruolo di collegialità nel giudizio di valutazione. Con alcune significative differenze: gli accademici britannici non vedono così influente il vertice istituzionale, mentre risulterebbero più importanti i vertici intermedi (senato accademico, collegio del docenti), cioè sarebbero gli organi collegiali a essere identificati come il luogo privilegiato dove le decisioni di reclutamento vengono prese (addirittura per il 40% degli intervistati inglesi); i colleghi tedeschi e i finlandesi attribuiscono un ruolo assolutamente predominante, invece, agli organi di vertice, come rettori e consiglio di amministrazione (per il 28% degli intervistati tedeschi, per il 32% dei finlandesi, rispetto ad appena il 4% dei docenti italiani); per i professori italiani a decidere le sorti del reclutamento sarebbero per il 25% i singoli “baroni” e per il 32% i direttori di dipartimento, con un totale complessivo di quasi il 60% degli intervistati che certifica anonimamente il quadro di “ingerenza” nei concorsi rispetto alle singole commissioni, a dimostrazione che più della maggioranza del corpo accademico italiano è perfettamente cosciente e consapevole di questo sistema gerarchico, chiuso e piramidale – in una parola non competitivo - ma non ha il coraggio, la forza e la consapevolezza di contrapporsi e di denunciarlo."

Giambattista Scirè

Storico, Amministratore e responsabile scientifico di “Trasparenza e Merito. L’Università che vogliamo

(8 ottobre 2020)



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