Il microbiologo, oggi all'Ateneo di Padova, racconta la sua storia di ricercatore nei più importanti atenei e centri d'Europa: "In Italia non mi facevano entrare nelle scuole di specializzazione, non vincevo un concorso. Il sistema universitario è marcio, nel Paese serve una redistribuzione di opportunità". L'articolo e intervista di Corrado Zunino su Repubblica.
ROMA – Professor Andrea Crisanti, anche lei si è iscritto a Trasparenza e Merito, l’associazione per un’università pulita?
“E c’è da stupirsi, io sono la prima vittima dei baroni dell’università italiana”.
Lei, un microbiologo di chiara fama?
“Appunto. Arrivo all’Università di Padova, dove insegno oggi a 67 anni, per chiara fama. Perché di essere assunto attraverso un concorso nel mio Paese non c’era speranza. Senza la possibilità che mi hanno regalato le università e i centri di ricerca stranieri, non avrei avuto una carriera scientifica”.
Quando e come si laurea, professor Crisanti?
“Nel 1979, a Roma, Medicina e Chirurgia dell’Università La Sapienza. Avevo 25 anni”.
Con che voto finale?
“110 e lode. Non avevo mai preso meno di 29 agli esami”.
Il suo impatto con il mondo di Medicina, da laureato?
“Ho fatto domanda per entrare in almeno dieci specialità. In tutta Italia. Niente, neppure una risposta. Eppure ero uno dei migliori studenti dell’ateneo più grande del Paese, il primo del mio corso di laurea. In quegli anni in un ospedale non entravi se non eri figlio di un primario, o comunque di un medico”.
Che specializzazione avrebbe scelto?
“Da ragazzo mi piaceva tutto, ero aperto e volitivo. Amavo la Medicina generale”.
Non la fanno entrare in una Scuola di specializzazione e lei che fa?
“Devo partire per militare, non ho alternative. Sono un ufficiale medico e raggiungo i carabinieri paracadutisti della Brigata Tuscania. Da una caserma di Firenze scrivo al direttore dell’Istituto di Immunologia di Basilea. Niels Kaj Jerne, nel 1984 gli avrebbero dato il Premio Nobel per la teoria della selezione degli anticorpi. Gli avevo inviato solo i voti di laurea: 29, 30, 30 e lode. Mi rispose: “Venga”. Tutto per lettera. Furono tre anni bellissimi. Mi avvicinai alle materie che seguo oggi e lì, dopo aver vinto una borsa di tre mesi del Consiglio nazionale delle ricerche per aiutare gli studenti che volevano andare all’estero, feci il dottorato”.
La sua carriera continua all’estero?
“Per forza, per me in Italia non c’era posto. E così proseguii al Laboratorio europeo di Biologia molecolare di Heidelberg, borsista post-dottorato. Altri tre anni pieni di ricerca. In Germania ho iniziato a interessarmi alla malaria. Sono rientrato in Italia per un periodo, all’Istituto di Parassitologia della Sapienza, l’Umberto Primo. E nel ’94, dopo aver fatto il lettore, l’Imperial College mi offre una posizione. Prima ricercatore, poi diventerò professore ordinario”.
E in Italia?
“Avrò fatto sette concorsi, mai primo. E allora ho iniziato a denunciarli al ministero, cercavo di fermare quel bando puntualmente predestinato”.
In che anni siamo?
“Tutti gli Anni Novanta, le abitudini del corpo docente non erano cambiate dalla stagione della mia laurea”.
Riparte per l’estero.
“E che doveva fare, là mi chiamavano. Lettore, ricercatore. E’ a Londra, all’Imperial College, che ho fondato la mia carriera e le mie ricerche. Nel 2000 divento professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze della vita”.
Ma non smette l’abitudine di fare ricorsi per i concorsi italiani.
“Si accorgono che sto diventando un problema e allora i parassitologi che contano si mettono d’accordo per organizzare un concorso per me. Dicono proprio così: “Ti abbiamo fatto un concorso su misura””.
E’ sempre stato così, un accordo tra più università per gestire chi entra in ospedale e chi sale in cattedra?
“In Italia si va avanti solo così. Nel 2001 sono entrato all’Università di Perugia, professore associato di Microbiologia. Sei anni dopo sarò ordinario. Non ho mai smesso di mantenere rapporti con strutture estere, la verità è che il sistema universitario italiano è marcio”.
E di che cosa avrebbe bisogno.
“L’università italiana e il Paese hanno bisogno di redistribuire opportunità. L’Italia non ha bisogno di redistribuire la ricchezza, ma le sue opportunità. E’ per questo che quando mi hanno chiamato quelli di Trasparenza e merito ho aderito subito. Un’ultima cosa”.
Prego.
“La mia storia è la dimostrazione che nella vita, se insisti, alla fine ce la fai”.
Leggi l'articolo on line su "la Repubblica" del 12 maggio 2021
Leggi l'intervista integrale (in pdf) su "la Repubblica" del 12 maggio 2021
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