Riproponiamo un articolo pubblicato il 26 settembre 2017 dal "Sole 24 Ore" ma davvero molto attuale perché è venuto il momento adesso , finalmente squarciato il velo di ipocrisia e di menzogne sul reclutamento universitario, per un serio dibattito, sincero e profondo, per fare in modo che non ci siano più concorsi truccati e spartizioni di cattedre.
Concorsi truccati e pensiero unico: se la «mediocrazia» contagia le università
Concorsi truccati e spartizioni di cattedre. Al ricercatore più bravo viene chiesto di farsi da parte perché quel posto di professore è già stato assegnato a un altro. E lui invece di obbedire, denuncia. Parla e scoperchia un sistema che porta all'arresto di sette professori di diritto tributario (ai domiciliari), 59 iscrizioni nel registro degli indagati e all'interdizione dall'insegnamento per un anno di 22 docenti.
Dal punto di vista penale è ancora presto per dire come finirà: le accuse dovranno, naturalmente, essere provate. Ma l'inchiesta della procura di Firenze porta a galla l'ennesimo episodio di “mala università”, in un paese dove - al contrario - le eccellenze negli atenei ci sono. Anche se quella che il filosofo canadese Alain Deneault, definisce “Mediocrazia” sembra essere un male che rischia di soggiogare anche le migliori forze dei nostri atenei.
Nepotismi e “spintarelle”
Qualche anno fa la giornalista Cristina Zagaria ha pubblicato per le Edizioni Dedalo un libro che racconta di quale fattura sia la mediocrità di certa università italiana. Il libro si intitola “Processo all'università – Cronache dagli atenei italiani tra inefficienze e malcostume”. La premessa è una efficace sintesi di una realtà che assomiglia sempre più a una patologia: «Professori che si tramandano le cattedre come fossero un'eredità di famiglia – scrive Cristina Zagaria -, come se l'istituzione fosse una cosa propria. Concorsi truccati, commissioni pilotate, nepotismo, ingiustizie, corse al potere. È questa l'università di “cosa nostra”, che genera docenti tanto corrotti, quanto inefficienti, e studenti che un giorno, imparata bene la “lezione”, saranno i loro replicanti». E ancora: «La “spintarella” è diventata il sistema di selezione più diffuso e in alcuni casi, sempre più frequenti, è arrivato ad assumere veri e propri caratteri mafiosi».
Nel 2008 Roberto Perotti, docente alla Bocconi ha fotografato impietosamente - anche lui - il malcostume e il nepotismo di certa università italiana. “L'università truccata” (Einaudi) è un libro che a leggerlo fa venire il mal di stomaco per le storie che rivela, come il caso della Facoltà di Economia di un'università del Sud Italia dove un quarto dei docenti aveva un parente professore nella stessa facoltà. Da Deneault a Perotti, tutto il mondo è paese.
Il ritratto della mediocrazia
Le università sono dunque il regno della mediocrazia? Secondo Deneault probabilmente sì. Prigioniere dei finanziamenti privati - sostiene il filosofo - hanno rinunciato a essere il laboratorio dello “spirito critico” a tal punto che il rapporto di subordinazione nei confronti di chi le sovvenziona ha corrotto alla base l'istituzione. E' ciò che scrive nel libro "La Mediocrazia" edito da Neri Pozza. Deneault dedica un intero capitolo a un mondo che conosce da vicino perché ne fa parte: il mondo accademico. E il ritratto che ne emerge è desolante. Un quadro capace di provocare reazioni infuriate all'interno dell'ambiente universitario per le ragioni più diverse. L'analisi di Deneault appare fin troppo netta e crudele ma ha il pregio di farci riflettere sulla strada lungo la quale ci siamo incamminati.
Le università? Si sono trasformate in un prodotto
Nel suo libro “Empire of Illusion”, il giornalista (Premio Pulitzer) e scrittore americano Chris Hedges accusa le università d'élite di aver rinunciato a qualsiasi forma di autocritica: «Rifiutano di mettere in discussione un sistema che ha nella sua conservazione la sua ragione d'essere». L'università è diventata né più né meno che una componente del sistema industriale, finanziario e ideologico attuale. Ecco allora che le imprese pretendono che le università forniscano loro il sapere di eccellenza e le persone di cui hanno bisogno. Finanziano gli atenei che sono già finanziati (poco e male per la verità) dai fondi pubblici. E comincia la lenta (o veloce, a seconda dei casi) trasformazione degli atenei in appendici delle organizzazioni private.
Una metamorfosi che segue le sue regole, anche esteriori. E così le aule universitarie vengono ribattezzate con il nome dell'impresa che ha elargito i finanziamenti, il dipartimento e la cattedra vengono denominati come la società che ha provveduto a fornire i fondi necessari per portare avanti una determinata ricerca. Tutto diventa prodotto e – come vogliono le regole del marketing e della comunicazione – bisogna che si sappia chi ha finanziato cosa. Un centinaio di anni fa anche Max Weber aveva parlato di mediocrità riferendosi all'atteggiamento di subordinazione delle università ai rapporti di natura commerciale. Era il 1919 e da allora qualcosa è cambiato ma Deneault insiste (forse con eccessivo purismo) sulla contaminazione tra mondo degli affari e mondo accademico e soprattutto sulle conseguenze di questo rapporto.
Le università rifiutano di mettere in discussione un sistema che ha nella sua conservazione la sua ragione d'essere
A esemplificare la condizione di subalternità delle università, l'autore di Mediocrazia cita una frase pronunciata dal rettore dell'ateneo di Montreal nel 2011: «I cervelli devono corrispondere ai bisogni delle imprese». In quel periodo, rammenta il filosofo canadese, nel consiglio di amministrazione dell'ateneo sedevano rappresentanti dell'ambiente bancario, industriale, petrolifero e dei media. Eppure l'università di Montreal è ancora largamente finanziata dallo stato.
Questa situazione di sudditanza Libero Zuppiroli, professore universitario e autore del libro “La bulle universitaire. Faut-il poursuivre le rêve américain?” (Editions d'en bas), l'ha osservata in Svizzera, quando l'Ecole polytechnique di Losanna si è trasformata nello Swiss Institute of Technology. Zuppiroli si è chiesto come i professori universitari delle migliori università tecnologiche mondiali possano ancora trovare il gusto di insegnare quando sono costretti a spendere la maggior parte del loro tempo a ricercare fondi e a occuparsi di marketing. Il sistema universitario attuale, è la domanda che Zuppiroli si pone, non conduce alla morte dell'immaginazione e della libertà necessarie alla creazione intellettuale?
Ricercatori precari soggiogati dalle pubblicazioni
La mediocrità – sostiene Deneault – è anche quel sistema che costringe i ricercatori a produrre lavori su lavori soltanto per soddisfare un produttivismo apparente che non ha nulla a che vedere con lo sviluppo critico e libero del pensiero. Un rischio che era stato già sottolineato all'inizio del XX secolo dall'intellettuale tedesco Georg Simmel. La moltiplicazione galoppante degli studi e delle pubblicazioni è un ostacolo al lavoro lento e intimo di assimilazione del sapere. La produzione originale è sostituita dalla produzione in serie ed è qui che si annida la mediocrità.
Ecco dunque che l'università non vende più i risultati delle proprie ricerche ma soltanto il suo marchio, quello che appone sui rapporti e di cui detiene i diritti. E invece di ergersi a garante del pensiero il più possibile obiettivo, spesso si fa strumento di manipolazione dell'opinione pubblica.
E se ragioniamo con calma ricorderemo alcuni studi commissionati a blasonati professori universitari che dimostravano come la costruzione di una determinata opera pubblica oppure la realizzazione di un evento di rilevanza internazionale avrebbero determinato la creazione di decine di migliaia di posti di lavoro e sarebbero stati un volano per l'economia. Previsioni poi puntualmente smentite.
Deneault è spietato nella sua analisi sulla deriva del mondo universitario. Al servizio delle lobby le università hanno abdicato al loro ruolo tradizionale. Per modificare la realtà, dice Deneault, i lobbisti cercano di fabbricare un clima favorevole ai loro interessi, per esempio mobilitando pubblicamente degli “esperti” che essi stessi finanziano. I conflitti d'interesse sono all'ordine del giorno.
In un libro di qualche anno fa il lobbista di professione Eric Eugéne (“Le lobbying est-il une imposture?”, Cherche Midi) spiega in che modo i lobbisti ragionano quando devono commissionare degli studi a esperti e professori universitari: «Da dove viene l'esperto? Quali sono i suoi progetti di carriera? Lavora nel settore pubblico e in questo caso pensa di terminare la sua carriera nel settore privato? Chi finanzia il centro di ricerca nel quale lavora? E' chiaro che l'esperto non è indipendente e che i suoi lavori sono fortemente orientati da chi li finanzia», scrive senza mezzi termini Eugéne. L'università lavora da diversi decenni per rendersi manipolabile da chi le fornisce i fondi, è la tesi di fondo di Deneault.
Cosa significa “giocare il gioco”
Alexander Alfonso, che insegna al dipartimento di economia politica del King's College di Londra, ha studiato a lungo la struttura organizzativa del narcotraffico e l'ha comparata con quella universitaria. Lo studio (“How academia resembles a Drug gang”) pubblicato sul sito internet della London school of economics, stabilisce un legame tra la sproporzione dei guadagni all'interno delle reti dei trafficanti di droga e quella presente all'interno degli atenei. Gli spacciatori che vendono la droga in strada sono pagati una miseria rispetto ai dealer che siedono nei gradini più alti della scala gerarchica. È un po' come accade nel mondo accademico, dove i ricercatori precari sono sottopagati mentre i “baroni” hanno una retribuzione molto più alta.
Ma cosa spinge spacciatori da una parte e ricercatori dall'altra ad accettare questo stato di fatto? È essenzialmente la prospettiva dei guadagni futuri. È questo il principale motore che li spinge a restare all'interno della struttura. C'è un altro prezzo da pagare però se si vuole avere la speranza di migliorare la propria situazione di precariato: bisogna “giocare il gioco”. Il gioco è un insieme di regole non scritte e di comportamenti usuali del tutto informali che bisogna rispettare nell'ambiente se si vuole raggiungere i propri obiettivi.
E allora bisogna riconoscere l'autorità di chi è collocato gerarchicamente sopra di noi, accettare piccoli ma continui compromessi sui termini da utilizzare nella ricerca che i sta elaborando, magari sorvolando su qualche aspetto che potrebbe creare imbarazzo in chi finanzia quello studio. E poi, magari, sostituire qualche parola troppo poco moderata, mostrarsi alla serata organizzata dal direttore del dipartimento, contribuire al finanziamento della determinata organizzazione caritatevole e farlo sapere nell'ambiente, complimentarsi con il collega per l'ottimo articolo scritto (e che noi non abbiamo letto). Tutto passa attraverso la partecipazione a certi rituali del tutto informali ma fondamentali. Questo significa “giocare il gioco”.
Leggi l'articolo di Angelo Mincuzzi sul "Sole 24 Ore" del 27 settembre 2017
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